«È terribile, è terribile,» mormorò a quel punto l'uomo più anziano, facendo un passo avanti.
I
capelli candidi, accuratamente tagliati, gli incorniciavano il lungo viso sottile su cui spiccava il naso ricurvo, simile a un becco d'uccello. Era basso e fragile e gli tremavano le mani mentre parlava. «Siete sicuri che quella povera donna sia stata usata come vittima sacrificale in un rito tolteco?»
«Non siamo sicuri di nulla,» replicò Rolk. «Ma il caso presenta forti somiglianze con i rituali descritti dalla dottoressa Silverman nella conferenza di ieri sera.»
Grace Mallory serrò la mascella. «Quella conferenza non è stata che uno sproloquio che mirava solo a fare colpo. Non avrebbe mai dovuto avere luogo.» S'interruppe bruscamente, come colpita da un pensiero improvviso. «Lei c'era?» domandò.
«Sì, c'ero.»
«Le interessa la religione tolteca?»
«Mi interessa l'omicidio,» rispose Rolk. «E cerco di documentarmi su tutti i suoi aspetti.»
«In vacanza come al lavoro, eh?» Di nuovo Sousi. Grace Mallory lo zittì con un'occhiataccia.
«Mi spiace di interrompere il vostro lavoro,» riprese Rolk. «Ma nelle indagini su un omicidio il tempo è un elemento determinante.»
Grace Mallory fece un gesto di noncuranza con la mano. «Nessun problema, tenente. Temo che siamo tutti un po' sconvolti dal sensazionalismo che da qualche tempo sembra circondare il nostro lavoro. No, non intendevo proprio questo,» si corresse poi facendo un respiro profondo. Quando riprese a parlare, la sua voce si era fatta più dolce. «La dottoressa Silverman ci ha detto che secondo lei l'arma del delitto era un manufatto proveniente da uno dei due musei. Può dirmi qualcosa di più riguardo all'epoca e al tipo di materiale?» Ascoltò con attenzione quel poco che Rolk aveva da dirle. «È certo di questo?» domandò poi. «Del fatto cioè che l'arma risale a circa settecento anni fa?»
«Così pare. In ogni caso, i frammenti sono stati spediti altrove per un'analisi più accurata.»
«Dove?» volle sapere la dottoressa Mallory.
«Al Peabody Museum di Harvard. Il nostro esperto si è già messo in contatto con loro.»
«Non potevate scegliere luogo migliore. Là sono in grado di effettuare gli esami più sofisticati. Spectrofotometro, datazione con carbonio-14, ricerca con microscopio elettronico, perfino la nuova analisi ad attivazione neutronica, se necessario.»
«Perché siete tanto interessati alla datazione?»
La domanda di Rolk strappò un sorriso alla dottoressa. «A causa dell'ossidiana. Se i test confermeranno quanto ci ha detto, sapremo con certezza quasi assoluta che le armi sono dell'epoca precolombiana.»
«Perché?» Devlin si avvicinò un po' di più al tavolo per dare un'occhiata ai vari oggetti che vi erano disposti.
La dottoressa Mallory ficcò le mani nelle tasche del camice e si raddrizzò, come preparandosi a una lunga conferenza.
«I
maya, gli aztechi, i toltechi e così via, erano popoli di talento e di grande intelligenza, ma estremamente primitivi in certi settori. Costruivano città magnifiche, piramidi, cisterne... imprese di ingegneria che avevano dell'incredibile... ma non conoscevano la ruota.
I
loro strumenti e le armi erano rozzi secondo gli standard delle culture europee, asiatiche e africane dell'epoca. Ignoravano, tra le altre cose, l'esistenza del ferro e utilizzavano in prevalenza ossidiana e selce. Di conseguenza, se le armi che le interessano provenissero invece da un'altra civiltà della stessa epoca, sarebbero in ferro, non in ossidiana.»
«La dottoressa Silverman ha detto che l'ossidiana può essere affilata a sufficienza da...»
«Oh, santo cielo, sì.» Con due passi George Wilcox si portò a fianco della Mallory. «Qualche anno fa... mi occupavo di certi scavi sul Rio Azul, nel Guatemala del nord... ricordo che alcuni operai indigeni si radevano ancora con l'ossidiana.»
«Qui ne abbiamo qualche esempio,» intervenne Malcolm Sousi, e Rolk si accorse che nei suoi occhi c'era ancora un'espressione divertita, quasi li stesse studiando al microscopio.
Sousi prese un frammento di materiale verde, simile a vetro, probabilmente la lama di una spada corta o di un pugnale. Il bordo era seghettato. «Ecco un esempio eccellente,» dichiarò.
Rolk passò il dito sul bordo dell'arma. «È smussato,» osservò.
Grace Mallory rise, una risata piena, di gola. «Certo, non li teniamo affilati. Non ce n'è bisogno, e se lo facessimo con il tempo l'affilatura li ridurrebbe a niente.»
Rolk si rivolse a Kate, che non aveva partecipato alla conversazione. Come una bambina colta a fare una birichinata, pensò, e che ora spera che il pavimento si apra per ingoiarla. «Il pugnale che ha usato ieri alla conferenza. Sembrava più nuovo di questi, e bene affilato.»
«Era fasullo, tenente.» Osservò la sua espressione sorpresa. «L'ho scelto perché aveva un aspetto più... drammatico.» Pronunciò quell'ultima parola con difficoltà, poi riprese: «E anche perché se si fosse danneggiato la cosa non avrebbe avuto importanza.»
«Di copie ne circolano parecchie,» interloquì Grace Mallory. «Gli indiani li fabbricano per venderli ai turisti, a volte spacciandoli per originali. Spesso è difficile stabilire l'età dalla lama, dato che l'ossidiana usata può essere molto vecchia. Di solito per una datazione precisa dobbiamo affidarci all'impugnatura.»
«E l'ascia?» volle sapere Rolk. «È falsa anche quella?»
«No, autentica.» Era stata Kate a rispondere. «Ma è di bronzo e il rischio di danneggiarla era minimo.»
«In effetti, tenente,» s'intromise di nuovo Grace Mallory, «il pugnale era mio, dono di un indigeno che ha lavorato con noi in certi scavi parecchi anni fa. Lo tengo per ricordo.»
«C'è qualche altra copia in giro?» Rolk insinuò nella parola «copia» una lieve nota di disgusto, mentre a turno guardava la Silverman, Wilcox e Sousi. «Io acquisto solo pezzi autentici,» rispose Sousi con un sogghigno. «Quando posso permettermelo, voglio dire.»
Wilcox scosse la testa. «Le armi non mi hanno mai interessato granché. Temo che la mia collezione sia alquanto limitata.»
Kate si limitò a un cenno di diniego, come se si stesse nascondendo di nuovo, pensò Rolk. «Immagino che abbiate parecchia roba,» disse rivolto alla Mallory. «Qui al Metropolitan e al vostro museo, intendo dire.»
«Sì, molta. Ma ci vorrebbe un po' di tempo per stabilirne il numero esatto.»
«Tutte armi affilate?»
«Non credo proprio.»
«Se qualcuna mancasse, ve ne accorgereste?»
«Diciamo che potremmo scoprirlo. Ci vorrebbe del tempo, ovviamente, e anche parecchia fatica, ma in caso di necessità potremmo farlo. Naturalmente, non saremmo mai in grado di stabilire con certezza se qualcosa è stato trafugato e poi restituito.»
«E per quanto riguarda i collezionisti privati? Vi risulta che qualcuno di loro conservi armi affilate? O magari qualche copia?»
Grace Mallory rifletté qualche istante, poi scosse la testa. «Che interesse avrebbe un collezionista a esibire un pezzo falso? Per quanto riguarda quelli autentici...» Scosse ancora la testa. «Il rischio di danneggiarli sarebbe troppo alto.»
«Mi è sembrato di capire che ieri ci fosse qui il collezionista che vi ha prestato alcuni reperti. Chi è?»
«Padre Joseph Lopato,» rispose Grace Mallory. «Immagino che l'abbia visto ieri sera alla conferenza; ha parlato in favore del suo movimento di assistenza ai profughi. È il parroco della chiesa di St. Helena, nel West Side, e ha effettivamente una ricca collezione di armi antiche.»
«Un sacerdote che colleziona armi antiche?» si stupì Devlin.
«Tra le altre cose. Padre Lopato è un antropologo, e anche molto in gamba. È stato missionario nello Yucatán ed è lì che si è fatto coinvolgere in questo ridicolo movimento in favore dei profughi.» C'era di nuovo una nota di collera nella voce della dottoressa.
Rolk le lanciò un'occhiata, poi scarabocchiò qualcosa sul taccuino. «Ancora una cosa. Quale procedura seguite quando dovete portare fuori dal museo dei reperti?»
Grace Mallory si strinse nelle spalle. «Di solito li mettiamo in una valigetta, se non sono troppo grossi.»
«È così facile far entrare e uscire gli oggetti di proprietà del museo?»
La donna sorrise. «In effetti non è un procedimento molto ortodosso, ma temo che la maggior parte dei conservatori tenda a fare uno strappo alla regola quando vuole fare esaminare un reperto da un'autorità esterna, o qualcosa di simile.» Con la testa indicò Sousi. «È stato Malcolm a portare qui la lama che adesso ha in mano, nella
sua
ventiquattrore.»
Rolk posò il pugnale sul tavolo. «Solo i conservatori possono farlo, o anche altri membri del personale?»
«Be', immagino che in teoria potrebbe farlo chiunque, ma certo sarebbe più difficile.»
Ancora una volta Rolk si volse verso Kate. «Vorrei vedere le armi che ha utilizzato ieri sera.»
«Sicuro,» assentì lei. «Ho rimesso le armi e la maschera nella scatola con cui le ho portate qui. È là sul tavolo.»
«È la stessa in cui le ha riposte dopo la conferenza?» domandò Rolk, accostandosi con Devlin a una lunga cassa di legno.
«Sì.»
«E poi l'ha riportata qui?»
«No, ci ha pensato un addetto alla sicurezza. Non so di preciso quando. Io sono rimasta al cocktail che ha seguito la conferenza. Ma la cassa era qui stamattina, quando sono arrivata.»
Fu Devlin a sollevare il coperchio, ma all'interno della cassa, foderata di feltro verde, non si vedevano armi. C'era invece uno dei volantini che annunciavano la conferenza e intorno al nome di Kate Silverman era stato tracciato un cerchio con dell'inchiostro nero. Lì accanto era posata una grande piuma di un azzurro iridescente.
Wilcox si chinò sulla scatola, di colpo pallidissimo. «È un'offerta votiva,» mormorò con voce rauca.
«Che cosa intende?» chiese Devlin.
Fu Rolk a rispondere. «La dottoressa Silverman l'ha spiegato ieri sera alla conferenza. Pare che i toltechi avessero la consuetudine di fare delle offerte alle vittime destinate al sacrificio. Perché si preparassero all'onore che le aspettava.» Guardò Kate. «È così?»
Lei annuì, senza staccare gli occhi dalla cassa.
«Vedi di rintracciare quella guardia,» intimò Rolk a Devlin, poi si rivolse alla Mallory. «Vorrei che la dottoressa Silverman accompagnasse l'agente Devlin al vostro museo, in modo da dare un'occhiata alla collezione.»
Grace Mallory si avvicinò a Kate e le passò un braccio intorno alla vita. «Ma certo, tenente. Qualunque cosa.»
Kate sollevò di scatto la testa e guardò Rolk dritto negli occhi. «È una pazzia,» disse con voce ferma, quasi irata. «Lo scherzo di un folle.»
Rolk ricambiò il suo sguardo. «Lo spero,» mormorò alla fine. «Ma credo, dottoressa Silverman, che al momento debba preoccuparsi di qualcosa di più importante della sua carriera.»
7
Il Museo Americano di Storia Naturale occupava una fetta considerevole del patrimonio immobiliare di New York. Si estendeva da Central Park Ovest a Columbus Avenue, e dalla Settantasettesima Ovest alla Ottantunesima, ed era ancora più impressionante del Metropolitan stesso, se non per le dimensioni, certo per l'architettura. La facciata, che dava sulla Settantasettesima ed era molto simile a quella di un castello, contrastava bizzarramente con gli edifici circostanti e a renderla ancora più austera contribuivano le torrette che svettavano ai quattro angoli e che la facevano assomigliare a un carcere o a un antico ospedale gotico per malati di mente. L'ala aggiunta in seguito, e che dava su Central Park, era più tradizionale e molto meno tetra.
La somiglianza del museo con un manicomio aveva sempre colpito Paul Devlin, che non mancò di notarla anche questa volta mentre si addentrava nel dedalo di laboratori e magazzini che occupavano l'ottanta per cento della superficie dell'edificio. Rolk l'aveva mandato da solo con Kate Silverman, riservandosi l'incarico di esaminare la collezione del sacerdote, decisione che aveva stupito Devlin. Il regolamento voleva che certi controlli fossero effettuati da due agenti, ma d'altra parte Rolk non si preoccupava mai troppo dei regolamenti e probabilmente riteneva che una bella antropologa e un sacerdote cattolico non fossero poi così pericolosi. Devlin lanciò un'occhiata alla giovane donna che lo accompagnava e decise che gli sembrava piuttosto pericolosa anche se in tutt'altro senso.
Entrarono in una sala che correva lungo il lato meridionale del fabbricato; le bacheche traboccavano di manufatti precolombiani.
«È questa la collezione?» domandò Devlin.
«Quasi tutta,» rispose Kate. «Ci sono altre zone di deposito più piccole, e naturalmente alcuni oggetti sono esposti al pubblico mentre altri si trovano nei laboratori per essere studiati e analizzati.»
Devlin increspò le labbra, mimando un fischio silenzioso. «Diavolo. Non voglio neppure sapere quanti sono.»
«Ne sono felice,» sorrise Kate, «perché non potrei dirglielo se non dopo parecchie ore di ricerche.»
Anche lei, ricordò, si era sentita sopraffatta dalle dimensioni della collezione il giorno del suo arrivo al museo. Ma ormai non ci faceva più caso, proprio come chi, abituato a una vista spettacolare, finisce per non notarla più, a meno che qualcosa di insolito non risvegli la sua attenzione.
Guidò l'agente in un ufficio alloggiato in una delle torrette, una stanza rotonda con le pareti rivestite di lucido mogano.